- La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina sembra attraversare una nuova fase di escalation.
- Il temuto ribasso del mercato non si è ancora verificato.
- In un clima di costante incertezza il potenziale di rialzo appare tuttavia limitato.
Finora gli Stati Uniti hanno imposto dazi punitivi del 25 percento sulle importazioni dalla Cina per un valore complessivo di 250 miliardi di dollari. Presto si potrebbero aggiungere merci per altri 325 miliardi.
La lunga disputa commerciale tra Stati Uniti e Cina continua a pesare sui mercati. Da oltre un anno ormai, le delegazioni delle due superpotenze continuano a fare la spola tra Washington e Pechino nel tentativo, finora vano, di raggiungere un accordo. Il conflitto continua invece a inasprirsi.
Le interpretazioni su ciò che questo significhi per i mercati cambiano di giorno in giorno. A volte prevale l’opinione che le cose non vadano poi così male, perché prima o poi i due avversari dovranno sicuramente mettersi d’accordo. Per un autoproclamatosi artista degli affari come Donald Trump, le minacce di guerra fanno parte del normale armamentario.
Poi però riaffiora la paura: il presidente americano sembra davvero intendere quello che dice, di conseguenza la Cina reagisce con i contro-dazi e i fronti si irrigidiscono. Ma i due antagonisti come pensano di uscire da questo ginepraio? Tutto sembra possibile.
Incertezza significa volatilità dei cambi
Una cosa, però, sembra chiara: indipendentemente dall’effettivo impatto economico, non c’è niente che gli investitori odino di più dell’incertezza. Periodi come questi, in cui nessuno è in grado di prevedere cosa indicherà il barometro, sono spesso legati alla volatilità dei cambi.
Quanto è grave la situazione?
Tenere i nervi saldi diventa quindi ancora più importante: qual è la vera gravità della situazione? Gli Stati Uniti stanno già imponendo dazi punitivi fino al 25 percento su vari prodotti cinesi per un valore commerciale di oltre 250 miliardi di dollari. Le misure ritorsive della Cina riguardano finora merci statunitensi per un valore di oltre 110 miliardi di dollari.
A quanto pare, la spirale di escalation si è tutt’altro che conclusa. Gli Stati Uniti stanno già minacciando la Cina con dazi su ulteriori importazioni per un valore complessivo di 325 miliardi di dollari, senza contare che le aziende cinesi potrebbero ritrovarsi escluse dal mercato statunitense, come accaduto a Huawei e ai suoi apparecchi telefonici.
Anche la Cina può colpire gli Stati Uniti. Potrebbe reagire alle barriere tariffarie statunitensi con la svalutazione del renminbi, trasformando il conflitto in una guerra valutaria. Il presidente americano Trump ha già twittato che “la Cina pomperà denaro nel suo sistema e probabilmente ridurrà i tassi di interesse” e ha invitato la Fed, la banca centrale statunitense, a fare assaggiare ai cinesi la loro stessa medicina riducendo nettamente i tassi di interesse[1].
Le barriere commerciali hanno un impatto globale
La maggior parte degli osservatori è d’accordo su una cosa: i dazi sono tossici per il commercio e penalizzano l’attività di molte aziende – e non solo nei Paesi coinvolti. L’economia globale è così strettamente interconnessa che gli effetti saranno probabilmente percepiti ovunque: i fornitori asiatici potrebbero risultare penalizzati, così come i mercati europei dove verrebbero dirottati alcuni prodotti con prezzi gonfiati artificialmente.
Negli Stati Uniti, una delle conseguenze della guerra commerciale è il deciso arretramento, nel mese di maggio, dell’indice S&P 500 rispetto al picco raggiunto a fine aprile. Le perdite sul mercato azionario cinese sono state ancora più evidenti.
Non mancano però i segnali di speranza: Trump, per esempio, ha rinviato a metà novembre 2019 la decisione relativa ai dazi sulle auto importate dall’Europa, dando un po’ di respiro soprattutto all’industria automobilistica tedesca. Intanto il presidente americano sta spingendo per la ratifica dell’accordo commerciale USMCA con Messico e Canada.
Giù le mani dalla Cina?
Dopo essersi guadagnata la posizione di seconda potenza economica mondiale, la Cina è assai meno vulnerabile rispetto al passato. Nel 1980 la quota cinese della produzione economica non superava il due percento, mentre oggi è ben oltre il 18 percento [2]. Attualmente molte società cinesi realizzano un’ampia fetta del proprio fatturato sul mercato domestico. La domanda interna, in questa enorme nazione di 1,4 miliardi di abitanti, ha continuato a crescere a ritmi sostenuti negli ultimi anni, non da ultimo perché molti cinesi stanno diventando più ricchi. La dipendenza della Cina dalle esportazioni, tallone d’Achille del Paese nelle fasi precedenti della sua crescita, si è quindi sensibilmente ridotta. Questo non significa che una guerra commerciale non avrà alcun impatto, ma a differenza del passato non sarebbe più un disastro per l’economia di questa gigantesca nazione.
Inoltre, il governo cinese non resterà con le mani in mano mentre il suo più importante obiettivo di crescita economica rischia di sgretolarsi. Al contrario, ricorrerà probabilmente a una serie di contromisure per stimolare nuova crescita, per esempio attraverso tagli ai tassi di interesse, nuovi investimenti in progetti infrastrutturali e ulteriore liberalizzazione del mercato.
Nel 1980 la quota cinese della produzione economica non superava il due percento, mentre oggi è ben oltre il 18 percento.
Anche gli Stati Uniti ci rimettono
Uno sguardo agli scambi commerciali tra Stati Uniti e Cina rivela inoltre che finora i calcoli del presidente americano non hanno funzionato come previsto. Il disavanzo commerciale con la Cina non si è ridotto negli ultimi mesi, bensì è aumentato. In aprile le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono effettivamente diminuite del 13 percento, ma il calo nell’altra direzione è stato addirittura maggiore in termini percentuali. Le importazioni dagli Stati Uniti sono scese del 25,7 percento[3].
I presidenti Trump e Xi si incontreranno di persona al vertice G20 di Osaka del 28 e 29 giugno.
Se c’è una cosa che emerge da questi dati, è che gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina e la Cina degli Stati Uniti: entrambi i Paesi hanno tutto l’interesse a tornare prima o poi al “business as usual”.
La pressione dei mercati finanziari potrebbe portare alla riconciliazione
DWS ritiene che prima o poi le parti dovrebbero trovare un accordo. Le pressioni dei mercati finanziari potrebbero contribuire allo scopo, tanto quanto la crescente insoddisfazione di ampie fasce dell’economia statunitense, dove l’impatto delle nuove barriere tariffarie inizia a farsi sentire sulle tasche dei cittadini.
Trump ha già annunciato che incontrerà il presidente cinese Xi al vertice G20 di fine giugno. Secondo i mercati questo confronto potrebbe essere il primo passo verso un accordo, anche perché diventa sempre più chiaro che un’ulteriore escalation penalizzerebbe entrambe le parti, anziché favorirle.
Da un punto di vista logico, diverse argomentazioni sostengono quindi l’ipotesi di una conclusione pacifica della guerra commerciale. Ma Trump non sarebbe Trump se non avesse in serbo qualche sorpresa negativa che potrebbe portare scompiglio sui mercati dei capitali. Una strategie difensiva rimane quindi all’ordine del giorno.